Gli alberi, il PIL e la rivoluzione

 Giorgio Parisi, premio Nobel per la fisica 2021, appena insignito della prestigiosa onorificenza, alla vigilia della COP26 rilasciò alcune dichiarazioni in cui, senza peli sulla lingua, metteva in mora i politici sulla loro devozione al PIL, che di fatto sta distruggendo il pianeta. Devo dire che provai un fremito di ammirazione per uno scienziato che metteva al servizio della salvezza del pianeta i suoi molteplici saperi e la notorietà derivata dal Premio Nobel. Gli intellettuali questo devono fare, pensai. 

Poi però ci fu tanta gente che cominciò a sperare che le parole di Parisi potessero davvero spostare l’ago della bilancia nell’imminente incontro di Glasgow sul clima.
Il neo-premio Nobel aveva appena finito di parlare quando mi telefonò un amico: «Hai sentito le dichiarazioni dello scienziato in Parlamento? Finalmente qualcuno gliel'ha detto ai maledetti politici, che il PIL non è un parametro per il benessere degli esseri umani!» Provai a ribadire che noi ambientalisti quelle cose le diciamo da quarant’anni e più, ma lui era lanciato sulla scia della speranza: «Questa è rivoluzione, non quello che fate voi, che pensate solo a piantare gli alberelli!» mentre quello che conta, la vera priorità, secondo lui, è cambiare il modello socio-economico. Mi sorprende sempre (e mi fa riflettere) come anche persone di grande sensibilità ambientale e civile non colgano il nesso fra le questioni sociali e la pratica quotidiana dell’ambientalismo attivo.

Eppure Enzo Tiezzi (ambientalista DOC) aveva scritto su questo fin dagli anni’80:
«Il punto principale da mettere in discussione, perché è l’assioma sbagliato su cui ci siamo basati fino a oggi, è la crescita materiale senza limiti né fine. Per fare questo c’è da ridiscutere non soltanto i rapporti di produzione, ma il cosa produrre, il come produrre, il dove, il quando e così via. C’è da spazzare via tanti luoghi comuni che fanno coincidere il “benessere” con l’aumento del prodotto nazionale lordo o con la concentrazione industriale. C’è da attivare un processo radicale di liberazione di potenzialità umane reali, un processo che porti a una società basata sull’equilibrio con la natura e sulla qualità della vita». 

E certo che per cambiare l’ambiente bisogna cambiare la società... anche viceversa però! E sì, in questo cambiamento gli intellettuali hanno la loro importantissima funzione, da non sottovalutare.
Ma -e questo è il punto- mi sembrava avventato aspettarsi che i politici, così decisamente chiamati in causa da Parisi, avessero una conversione sulla via di Damasco. Infatti sappiamo bene come è andata a finire a Glasgow e come sta andando, tante chiacchiere e pochi fatti veri, carbone e nucleare che rientrano dalla finestra, e gattopardianamente tutto sembra cambiare perché tutto rimanga com’è. Odio dire me l’aspettavo. Le rivoluzioni non le hanno mai fatte quelli che erano al potere. E la rivoluzione verde non fa eccezione. Senza azione dal basso, senza un bel po' di gente che si rimbocca le maniche e compie un'azione anche piccola, in grado di innescare circoli virtuosi... senza questo, non cambierà niente, e la cosiddetta transizione ecologica sarà nient'altro che un gigantesco greenwashing.

Le rivoluzioni, da sempre, le hanno fatte gli operai, intesi non solo e non sempre nel senso di lavoratori dipendenti, ma nel senso di persone dalla mentalità operaia, persone abituate a rimboccarsi le maniche, che non hanno paura della fatica, che sono capaci di solidarietà e di organizzarsi tutti insieme per difendere i loro diritti, di lottare senza arrendersi, sopportando le sconfitte e riorganizzandosi ogni volta.
Per questo piantare alberi, prendersene cura, parlare di loro e "per" loro è un atto rivoluzionario. Forse il più rivoluzionario di tutti. Perché cambia il mondo, concretamente. Un metro quadrato alla volta. E perché dimostra che si può fare, che il cambiamento è possibile. Che un altro mondo è possibile. 




Poi, certo, piantare alberi è necessario, ma non sufficiente. Bisogna cambiare le cose a più livelli. Cambiare il modo in cui produciamo l’energia e anche il modo in cui l’usiamo, cambiare il modo in cui ci spostiamo e la struttura delle nostre città, cambiare il modo di comunicare e le idee che comunichiamo. E soprattutto educare al cambiamento. Per fare tutte queste cose occorrono decisioni politiche, ma anche cittadini attivi (e reattivi) in grado di condizionare la politica.
E se da una parte bisogna pur iniziare, mi sembra che gli alberi siano un gran bel punto di partenza. Wangari Maathai, fondatrice del Green Belt Movement, era solita dire: 

«Sono le piccole cose che fanno la differenza.
La mia piccola cosa è piantare alberi».

 Lei la sua rivoluzione l’ha fatta, piantando nella sua vita milioni di alberi. 

Ora tocca a noi.

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