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Postazione mobile e altre speranze

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Abbiamo ormai accettato l'idea di vivere in un mondo complesso, per comprendere il quale occorre conquistare una visione sistemica. Ma esplorare un sistema non è facile, perché nel percorrerlo non si riesce quasi mai a porsi alla giusta distanza, a situare il proprio punto di vista in modo che sia possibile cogliere al meglio la realtà che osserviamo. Per usare una similitudine che mi è cara, o si vede l'albero o la foresta, ma non entrambi. Ed è proprio pensando agli alberi e alla foresta, e ricordando una breve ma intensa esperienza di volontariato contro gli incendi boschivi, che è venuta fuori una riflessione, tutto sommato nemmeno tanto originale, ma pertinente. Quando, in quell'estate del 1997, avvistavamo i focolai di incendio per prevenirne la propagazione, eravamo organizzati in modo che, oltre alle postazioni fisse distribuite sul territorio, ci fosse una postazione mobile. Niente di speciale, una vecchia Fiat Tipo con due persone a bordo, dotate di una radio mobi

Maggio/coraggio (un omaggio ad Alekos Panagulis)

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Maggio, sì tu Ca 'st'aria doce vaje prufumanno! Quanta ccanzone faje cantà a ddoje vvoce! Quanta suspire io manno! Maggio, è pe' tte Mme stò facenno cchiù mateniero Rose e vviole a ll'alba stò cuglienno Comm'a 'nu ciardeniere... E. A. Mario, 1913 Un classico della canzone napoletana, con i versi di E. A. Mario, dipinge in poche pennellate il mese di maggio, senz’altro il più bello dell’anno. Quando le piante urlano la loro voglia di vita con colori e profumi, quando i fiori si offrono all’abbraccio operoso degli impollinatori.  Tutto fiorisce, anche le erbacce cresciute sotto il bordo dei marciapiedi nelle più desolate periferie cittadine. La Natura ti si para davanti imperiosa, e ti prende, anche se non lo vuoi. Una pianta in piena fioritura è come una ragazza innamorata, spande gioia e luce intorno, se le passi accanto non puoi non vederla. Le fioriture di maggio sono come un concerto che passa dall’andante mosso all’allegro vivace, sempre più baldanzoso. Sarà

Uomini che credono di amare le donne

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  Mi arrabbio sempre, quando sento dire che gli uomini sono tutti uguali. Perché non è affatto vero. Per fortuna c i sono uomini che capiscono le donne e le trattano con rispetto, da tutti i punti di vista, sia che si tratti della moglie, della sorella, di una collega di lavoro o di una sconosciuta incontrata in treno. Sono davvero felice che questi uomini esistano, è un grande sollievo. Ma non è di loro che voglio parlare oggi. Poi ci sono quelli che le donne le picchiano, le stuprano, le ammazzano, o le riducono praticamente in schiavitù con mille vessazioni. Su di loro ci sarebbe tanto da dire, soprattutto su come impedirgli di fare del male e su come punirli seriamente una volta che l’hanno fatto. Ma ne parleremo un’altra volta. Quelli di cui voglio parlare oggi sono gli uomini che credono di amare le donne .  Uomini che si credono migliori degli altri, anzi di gran lunga migliori, perché non hanno mai dato uno schiaffo a una donna. Perché una volta a settimana lavano i piatti. Pe

Falcone, gli anarchici e il 41 bis

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Ho rimuginato a lungo, prima di scrivere di questo argomento. Mi sentivo sospesa fra il rispetto di una legge che, come ha detto in più occasioni Giancarlo Caselli, «gronda del sangue di Falcone e Borsellino» e la rabbia per l’uso distorto che se n’è fatto e se ne fa, e che ha spinto Alfredo Cospito , leader anarchico con qualche reato da scontare, ma non meritevole del carcere duro, a iniziare sulla propria pelle una battaglia contro questa norma. Un lunghissimo sciopero della fame , nel corso del quale è arrivato anche a rifiutare, per un certo periodo, perfino la terapia con gli integratori. Cospito ha usato il suo corpo, che probabilmente non tornerà mai più come prima, per affermare un principio valido per tutti, e cioè che il carcere non deve essere tortura, mai. Ma come è nata questa legge? La legge sul carcere duro per gravi reati, come era stata immaginata da Falcone, aveva un suo perché. I grandi capi mafiosi , i Riina, i Provenzano, erano in grado anche dal carcere di inquin

La bellezza, quella vera

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Recentemente Ischia, la mia isola, è stata definita “L’isola più bella del mondo” dalla prestigiosa rivista di turismo Travel+Leisure. Naturalmente qui si sono scatenate reazioni diverse: da una parte quelle di chi trionfalisticamente cercava di sfruttare l’inatteso riconoscimento per aumentare (ma non per migliorare) l’afflusso di turisti, e dall’altra quelle di chi si lamentava, anche giustamente , di tutti i problemi che affliggono l’isola, dai danni all’ambiente ai problemi di traffico e mobilità, alla cura quasi inesistente per i beni culturali e artistici, con siti di importanza mondiale come Punta Chiarito abbandonati da anni.   Eppure... Castello e borgo all'alba Eppure Ischia è davvero una delle isole più belle del mondo,   se non la più bella. Nonostante le microplastiche, gli incendi boschivi, le colate di cemento, i bus che non arrivano mai e che quando arrivano sono stipati. Nonostante un solo ospedale che serve sei comuni, la difficoltà di trovare un medico di base

Non si sale sugli alberi perfetti

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  Vi siete mai arrampicati su un albero? Se sì, avrete sicuramente notato che la cosa più difficile è scalare il tronco . Una volta arrivati all’altezza delle branche, se i rami sono solidi e non troppo fitti, ci si muove abbastanza bene e si può godere l’insolita prospettiva del mondo visto da un albero, godendo al tempo stesso il profumo dei fiori, dei frutti, delle foglie, i fruscii e la carezza del vento. Ma il problema è arrivare lassù. E più il tronco è liscio, diritto, perfettamente verticale, più è difficile salirci. Io poi non sono un portento di agilità. Così i pochissimi alberi su cui mi sono arrampicata in vita mia erano bassi, magari un po’ storti, con qualche screpolatura nella corteccia e con difetti vari qua e là.  E sono immensamente grata a quella loro imperfezione , che ha consentito anche a una piuttosto imbranata come me di sperimentare la bellezza dello stare su un albero. Foto Marco Zorzanello E mi viene da pensare che è un po’ così anche con gli esseri umani: p

Similitudini e differenze

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  Ci sono certe frasi che, ogni volta che le sento pronunciare, mi stimolano la vis polemica. Una delle più irritanti è «Non potremo mai intenderci perché siamo troppo diversi, non abbiamo niente in comune» . A parte che molte volte è falsa, perché se due persone stanno dialogando, qualcosa in comune devono pur averlo... ma siamo sicuri che essere diversi, avere poco in comune, sia uno svantaggio per le relazioni umane? C’è una mia amica che ama follemente il calcio. Quando c’è la partita del Napoli lei è in fibrillazione, e se vince lei esulta. Io invece sono una che di calcio non capisce proprio niente, non me ne interesso e sicuramente non tifo .  Lei conosce quattro lingue, io nemmeno l’inglese. Lei fa un lavoro completamente diverso dal mio, lei ha figli e io no. Sembrerebbe dunque che non abbiamo nulla in comune, che non possiamo intenderci. Eppure ci intendiamo. Ci piace passeggiare nei boschi, al passo lento di chi non ha più vent’anni, osservando con attenzione la Natura che c

Il Club dei Senza Pelle

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 “Sei troppo sensibile”, “troppo aperta”, “troppo intensa”. Quante volte me lo sono sentito dire.  Talvolta ho sentito evocare “Senza pelle” , un film del 1994 interpretato da uno strepitoso Kim Rossi Stuart, nel ruolo di un giovane psicologicamente fragile, la cui sensibilità eccessiva lo rende indifeso ma anche a suo modo pericoloso. E anche la protagonista femminile, una dolcissima Anna Galiena, nel momento in cui cede alle emozioni si trova travolta dalla sua stessa empatia e dalle sue conseguenze. Un film minaccioso, pur nella sua apparente dolcezza. Il messaggio che sembra lanciare, almeno per come l’ho colto io, è tremendo: la sensibilità è pericolosa, e scivola nel patologico non appena si supera il livello di guardia.  In ultima analisi, la sensibilità è una malattia .  Ma davvero...? Sì è vero, la sensibilità certe volte è un handicap, perché inevitabilmente chi è sensibile è vulnerabile, come un albero a cui sia stato strappato un pezzo di corteccia. Aprire la porta per lasc

Quel giorno che andai dal parrucchiere

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Quante cose sono cambiate in questi ultimi anni. Come un po’ per tutti, credo. Ma per ognuno c’è stato un percorso particolare, e ci sono state svolte inattese, in momenti magari imprevisti, a volte legate a gesti apparentemente insignificanti. Quando iniziò il lockdown, per i primi giorni quasi non percepii la differenza. Ero a Trecase, e quando sono lì sto sempre in casa, fuori dal centro abitato, se non fosse stato per le notizie in televisione nemmeno me ne sarei accorta. Non sembrava molto differente, anche se avevo già intuito la gravità della situazione. Poi cominciò a durare e a pesare. Non poter andare a Ischia, non poter lavorare, niente scuole, niente bambini, niente alberi tranne quei pochi del mio piccolo giardino. Niente mare. Niente Nettuno va a scuola. Soprattutto niente amiche e amici, niente zia e cugini, nessuna delle piccole affettuose abitudini che condividevo con loro. La chiusura, con piccole interruzioni, durò oltre un anno e mezzo. A Ischia, anche fra una zona

Solitudini

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Che cos’è veramente la solitudine? È più solo/a chi cammina da solo in riva al mare o chi si annega in mezzo a una folla a cui non importa niente di lui/lei? È più solo/a chi la sera torna in una casa vuota o chi vive con qualcuno che, al mattino, non dice neanche buongiorno? Quante solitudini mi sono passate sotto gli occhi ultimamente. Solitudini spesso non riconosciute da chi le vive, ma che appaiono evidenti a chi le guarda. Come quella del tipo sopra le righe, che si presenta a un incontro culturale abbigliato come un playboy degli anni ’70, e mentre tutti gli altri prendono caffè, tè o cioccolata, lui prova a stupire ordinandosi un drink bello forte, e forse ne ha già un altro paio in corpo. Poi parla e straparla, zittisce tutti gli altri, si dà arie da granduomo, allunga le mani ripetutamente su una ragazza che gli siede accanto e che non ha mai visto prima. E anche la ragazza forse è sola e non lo sa. Perché lo lascia fare e non si ribella. Intendiamoci, qualsiasi donna ha il

Abbracciame

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  Erano i primi tempi della pandemia. Eravamo tutti pieni di paura. L'isolamento ci faceva sentire piccoli e sperduti. E allora ci fu chi si mise a cantare dai balconi. "Abbracciame", una canzone d'amore, la richiesta disperata di quello che ci mancava di più: un abbraccio. E dai balconi di tutta Napoli la gente rispose. Ci fu chi criticò questo mettersi a cantare mentre la gente moriva. Ma quel canto non era gioia e spensieratezza. Era un'invocazione, un grido di speranza, un invito a non spezzare i legami, ad amare oltre la paura e la solitudine. Il video All'epoca io ero in una casa isolata, dove se pure mi fossi messa a cantare dal balcone nessuno mi avrebbe risposto. E allora guardai verso Ischia (che non si vede da lì, ma io conosco la direzione) e scattai una foto, un modo come un altro per sentirmi meno sola, e la mandai alla mia amica Marianna.      Lei mi rispose con un'altra foto, scattata nella mia direzione. Foto Marianna Lamonica Oggi finisce