Quel giorno che andai dal parrucchiere
Quante cose sono cambiate in questi ultimi anni. Come un po’ per tutti, credo. Ma per ognuno c’è stato un percorso particolare, e ci sono state svolte inattese, in momenti magari imprevisti, a volte legate a gesti apparentemente insignificanti.
Quando iniziò il lockdown, per i primi giorni quasi non percepii la differenza. Ero a Trecase, e quando sono lì sto sempre in casa, fuori dal centro abitato, se non fosse stato per le notizie in televisione nemmeno me ne sarei accorta. Non sembrava molto differente, anche se avevo già intuito la gravità della situazione. Poi cominciò a durare e a pesare.
Non poter andare a Ischia, non poter lavorare, niente scuole, niente bambini, niente alberi tranne quei pochi del mio piccolo giardino. Niente mare. Niente Nettuno va a scuola. Soprattutto niente amiche e amici, niente zia e cugini, nessuna delle piccole affettuose abitudini che condividevo con loro.
La chiusura, con piccole interruzioni, durò oltre un anno e mezzo. A Ischia, anche fra una zona rossa e l’altra, non ci andavo perché non potevo lavorare. In un anno e mezzo vidi la mia isola per sette-otto giorni in tutto, divisi in due toccate e fughe.
Ma nel frattempo succedevano cose. Iniziavo a scrivere per una rivista di cultura ambientale, conoscevo gente nuova anche se solo online, scrivevo un libro scolastico (il mio modo per restare vicina alla scuola e ai ragazzi), sperimentavo nuove forme di insegnamento come tutor in un corso online di giornalismo. E pensavo. Pensavo. Pensavo. Alla mia vita, a come l’avevo strutturata, a come volevo che fosse.
Poi quando sembrava che la pandemia potesse allentare la morsa, arrivò la malattia. Vissuta da sola, in una casa isolata, con sintomi forti anche se per fortuna senza polmonite. E con un filo diretto con mio marito ricoverato e grave. Oltre un mese d’inferno, il mese di maggio, quello che amo di più, per la seconda volta rubato. E poi il ritorno di un malato ancora grave, e io convalescente ad assisterlo, con preoccupazione e fatica.
E i postumi che si facevano sentire, con dolori dappertutto, la pelle improvvisamente fragilissima, un orecchio quasi sordo, ancora tosse e tanta stanchezza. Ma non mi potevo fermare. C’erano troppe cose da fare e potevo farle solo io.
E i capelli che cadevano a ciocche. Erano cresciuti a dismisura in un anno e mezzo, mai tagliati, e ora la malattia e i suoi postumi li stavano attaccando. Avrei poi scoperto che non ero l’unica. Quella variante (la cosiddetta brasiliana) ha portato via i capelli a molte donne. I miei bellissimi capelli, una delle poche cose belle che avevo. Non sono vanitosa, ma i capelli erano un pezzo della mia identità.
Ma con i capelli in questo stato dove vado? Ed era un problema, perché anche i capelli li ho sempre tagliati a Ischia, ma stavolta non ce ne sarebbe stato il tempo. Così mi avventuro per Trecase in cerca di un parrucchiere, mi prenoto, vado, e zac! Quindici centimetri giù.
Mi domandai, allora, se con me il taglio di capelli funzionasse come per Sansone o al contrario. Oggi lo so: Sansone al contrario! Quindici centimetri in meno, tanta forza in più.
I capelli stanno ricrescendo, rinfoltendosi pian piano. Forse non torneranno come prima, ma tutto sommato non sono male.
Da qualcosa, piccola o grande, che ti ridà coraggio.
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