Il Club dei Senza Pelle

 “Sei troppo sensibile”, “troppo aperta”, “troppo intensa”. Quante volte me lo sono sentito dire. Talvolta ho sentito evocare “Senza pelle”, un film del 1994 interpretato da uno strepitoso Kim Rossi Stuart, nel ruolo di un giovane psicologicamente fragile, la cui sensibilità eccessiva lo rende indifeso ma anche a suo modo pericoloso. E anche la protagonista femminile, una dolcissima Anna Galiena, nel momento in cui cede alle emozioni si trova travolta dalla sua stessa empatia e dalle sue conseguenze. Un film minaccioso, pur nella sua apparente dolcezza. Il messaggio che sembra lanciare, almeno per come l’ho colto io, è tremendo: la sensibilità è pericolosa, e scivola nel patologico non appena si supera il livello di guardia. 
In ultima analisi, la sensibilità è una malattia
Ma davvero...?
Sì è vero, la sensibilità certe volte è un handicap, perché inevitabilmente chi è sensibile è vulnerabile, come un albero a cui sia stato strappato un pezzo di corteccia. Aprire la porta per lasciar passare le emozioni permette anche a chi vuol farti male di entrare, come la ferita dell'albero lascia entrare funghi aggressivi. E destabilizza te e gli altri. E la vita stessa molte volte non è gentile, e se non hai la corazza ti fai più male. Se sei empatica/o, poi, anche il dolore degli altri ti colpisce. E i furbi e i narcisisti se ne approfittano. Un quadro decisamente desolante. Dunque è davvero così patologica e pericolosa la sensibilità?


Eppure non è così che io, da persona sensibile, vedo la mia vita. Mai, nemmeno nei momenti di più nera disperazione, quando il cuore si spezza e ci si sente morire, e vorresti solo startene in un angolo a leccarti le ferite. Anche in quei momenti percepisco che la sensibilità è un dono. Una maledizione, certo, ma anche un dono. Perché chi è sensibile vede e capisce cose che gli altri non capiranno mai. E se sai fare buon uso della sensibilità, se la usi per comprendere gli altri e non per piangerti addosso, allora avviene il miracolo.
Per quante difficoltà la vita possa avermi messo davanti negli ultimi anni, non mi sono mai trovata sola ad affrontarle. Che i miei problemi fossero quelli universali e socialmente riconosciuti, come il Covid, il fermo lavorativo, le difficoltà economiche; o che si trattasse di problemi più personali e meno riconoscibili, mi sono trovata sempre qualcuno accanto, che spontaneamente mi sosteneva, mi incoraggiava, e quando non poteva fare altro che consolarmi, mi consolava. 
Ma se ci sono persone che si accorgono di come stai male, e si preoccupano di sostenerti, è perché anche loro sono sensibili, e impiegano la loro sensibilità per capire gli altri. E allora ecco che nasce una rete di empatie, di sostegni reciproci, dove ognuno impara qualcosa dall’altro, dove ognuno riesce a fare le cose perché le fa con gli altri, dove alla fine si vive meglio perché invece di azzannarsi reciprocamente, si costruiscono ponti. Insieme.


E se è vero che le preoccupazioni di ciascuno diventano le preoccupazioni di tutti, anche le soddisfazioni e i successi si condividono. Sono fiera da morire dei miei amici e delle mie amiche che in questi anni, affrontando mille difficoltà e talvolta risalendo chine ripide, si sono fatte/i valere, portando avanti giuste cause personali e sociali, con fermezza e senza calpestare nessuno. E sono fiera anche di chi per ora non ce l’ha fatta, ma ce l’ha messa tutta. Di chi ha commesso errori, di chi è incerto/a o in impasse. Si continua a lottare, non ci fermiamo qui.

Uno per tutti e tutti per uno, come i moschettieri? Piuttosto direi ognuno per tutti, e tutti per ciascuno. 
Sì, questo potrebbe essere il motto del “Club dei Senza Pelle”. 
Dove si piange, spesso di dolore, ma a volte, anche di gioia.

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